Mario Stefanile dalla Prefazione a Favoloso il vento.
Di lui, altro non sapevo e non so,se non quello, tuttavia bastevole che appariva dai versi, de L’arcata sul sereno ( 1963), un libricino con poche liriche e quasi tutte indicanti di chi le aveva immaginate, sofferte e cantate, immagini di una terra che s’andava facendo remota e mitica fino ad occupare via via, nel recupero assorto del ricordo, nella consapevolezza di improvvise scoperte sentimentali, nell’intenerita gioia di una parola tutto il cielo dell’anima: e mi piacque appunto, di quella voce sommessa e tuttavia tesa in una sua generosa fermezza, la sincerità estrema, il rifiuto costante d’ogni lezio d’artificio letterario ,l’arresa trepidante e felice alle ragioni ultime del canto[… ]
[….]e quella soave grecità di tono che infine circola come il miglior sangue lirico in gran parte e direi in tutte queste sue poesie, trova esiti di una purezza veramente estrema[…]
[…]si potrà anche capire come il linguaggio espressivo delMastroianni. decantato fino ad una limpidezza noumenica, cioè non soltanto esteriore, faccia della memoria una continua occasione lirica, una scoperta che si può compiere alla conquistata luce del canto.
Alberto Frattini in ” Il Fuoco “,Roma, sett.-ott. 1970.
Nel suo discretissimo approccio alla verità dell’uomo – rifrazione suggestiva ed impalbabile di un destino che riguarda i molti, l’essere – il lavoro di questo appartato calabrese sembra dimostrare ancora una volta che ogni poesia non è che estraneazione apparente e non può ridursi ad arido gioco intellettualistico, entro i capziosi labirinti di un logos disancorato dall’umano.
Alberto Frattini-Le radici della lirica di F.Mastroianni: Mito e miraggio nell’ “eredità d’esilio” ,in Atti del Convegno di Studi,Lamezia Terme (CZ),20 aprile 1985.
Per quanto riguarda quella sorta di revival filoellenici che può coglersi nel nostro recente Parnaso non sono da trascurare due casi:Eraldo Miscia e Grytzko Mascioni. Il primo, Poeta e narratore abbruzzese immaturamente scomparso nel 1983, è autore di un poemetto Ulisse ritrovato nel quale i personaggi dell’epica e della storia greca più remota tendono a reincarnarsi in un clima di ironizzante attualità, sì che la mitologica regressione si omologa, attraverso il filtro umorale e satirico, in un caleidoscopico periplo dell’umanità contemporanea; il secondo, poeta e operatore giornalistico e radiofonico, originario del Cantone svizzero dei Grigioni e formatosi in Lombardia, ci offre con lo Specchio greco del 1980 un modernissimo approccio storico – critico – autobiografico al mondo dell’Ellade; opera di fosforica provocante intensità che può concorrere ad una più capillare penetrazione della sua vasta opera di poesia.
L’esperienza lirica del Mastroianni si radica in maniera affatto diversa – rispetto ai due autori sopra ricordati- nel rapporto con la tradizione mediterranea:per un verso il suo scavo si opera sul versante endogeno, ed ecco l’attenzione ai miti, ai riti,alle favole, all’immenso patrimonio demologico della sua gente; per un altro egli sembra avvertire, dall’interno di questa eredità ancestrale, il richiamo dei “grandi” dell’Ottocento, dal Foscolo al Leopardi, così vitalmente penetrati dal sempre rifiorente messaggio di civiltà e di bellezza dell’Ellade.
Non aveva scritto il poeta dei Canti – così caro al giovanissimo Mastroianni- che l’antichità era il tempo del bello, dell’immaginazione, e che la Grecia e l’Italia ne erano anche la patria? È in questa direzione che meglio può intendersi il formarsi di certi nuclei poetici di irradiante vitalità della poesia del Mastroianni, come quel” sentimento d’esilio” che incisivamente la percorre, accentuandosi nell’ultima stagione, ed al quale segretamente rispondono le tensioni trasfiguranti del miraggio e del mito.
Mario Luzi – Prefazione al Vento dopo mezzodì
Di Felice Mastroianni so poco più di quello che potè rivelarmi un breve incontro napoletano due anni or sono1:e cioè la sua ritrosia e timidezza che apparvero subito nascondere un vivo e quasi geloso fuoco interno.
Il cui senso mi venne a sua volta partecipato dal libretto di versi allora recenti “Lucciole sul granturco” e mi viene oggi anche più vivamente scandito da questa nuova raccolta.
Mastroianni è uno di quegli uomini che portano per tutta la vita, come una ferita lucente e profonda, un bisogno di purezza e di nitidezza, e sentono come ragione vitale il raggiungimento sempre inappagato e la custodia sempre insidiata di esse. Ma un tratto singolare distingue questo poeta da quella specie abbastanza numerosa di inquieti: ed è la fermezza con cui le immagini incorrotte della purezza umana e della nitidezza figurativa (i due elementi si confondono) seguitano a vivere in lui di una vita continua, presente. Questo è possibile perchè egli le ha ricacciate nella profondità ove non sembra che ci sia erosione o eclisse. Di fatto esse prendono i contorni degli uomini e delle terre di origine, cioè della Calabria, lontana nello spazio e anche nel tempo dall’esistenza attuale del poeta. Tuttavia non è propriamente un senso di elegia che promana da quelle immagini, ma piuttosto un’attonita carica di natura religiosa, e non di quella religione che hanno la memoria e il senso, ma di quella che si immedesima con una interna e gelosa certezza. Si è evidentemente in presenza di un bene che Mastroianni ha difeso con una sua acuminata fede attraverso il tempo e la sofferenza.
Se la tematica di queste poesie rientra ampiamente nel solco della poesia che celebra il mistero e lo spirito della terra, anzi di una terra, il loro accento non è per niente comune, poco mitico, niente pittoresco; e incide una sostanza viva, che è in definitiva una sostanza morale, nel senso che la limpidezza di linee e la “soave grecità” di cui parla molto bene Mario Stafanile, sono diventate una misura e un criterio di vita interiore molto fermi; una luce non abbagliante, ma fissa.
Firenze, aprile 1968. l) Luzi si riferisce al Premio Nazionale di poesia “Sebeto” (Napoli. 1966)
Vittorio Sereni – Lettera
Caro Mastroianni, è vero: me ne arrivano tanti di libretti che non ho nemmeno il tempo di leggere; e carta di ogni genere, tanta carta da averne nausea.
Ma sarà stato per le sue parole d’accompagnamento e insieme per un caso fortunato (una parentesi del lavoro, una improvvisa avidità di lettura) che ho letto oggi queste sue cose .
Le dico con sincerità assoluta che non è uno dei tanti libretti, tanto direttamente esso parla di una condizione -di solitudine, se vuole -in cui lo scrivere versi collima ancora con la sua antica naturalezza. Del resto, ha visto molto bene il nostro comune amico Mario Luzi nell’avvertire che non si tratta tanto di senso di elegia quanto di “attonita carica di
natura religiosa” (con quel che segue, di ancora più caratterizzante e distintivo, sulla “intima e gelosa certezza”).
Tornerò a leggere una poesia come “Sola”, ma non soltanto questa. ..Scusi se non le dico di più. Ho ricevuto e letto in queste pagine qualcosa di più del messaggio di stima che lei ha voluto mandarmi e di cui le sono profondamente grato; ma la gratitudine si fa meno generica dopo la lettura -che non è stato, glielo assicuro, tempo buttato via.
Le auguro buon lavoro e ogni bene
il suo
Vittorio Sereni
Milano, 29 aprile ’70
Diego Valeri – Lettera
Caro Mastroianni, ho qui il Suo bel libretto di poesie, che leggo, e qua e là rileggo, con viva commozione estetica (ma non solo estetica}. Il motivo ricorrente dell’esilio, e quelle note accorate di solitudine (immote solitudini), e il fresco riso delle nàjadi, e il fiume che si perde nella nebbia tra i giunchi ma continua a scorrere nell’anima, più in là del sole e del mare…: questo ed altro è entrato in me come sa entrare soltanto la vera poesia. Grazie del dono carissimo, e tanti tanti auguri dal Suo vecchio
Diego Valeri
Vittorio Vettori- La “Grande Madre” in F. Mastroianni:Mitobiografia di un poeta, in atti del Convegno di Studi-Lamezia Terme CZ, 20 aprile 1985
[…] il mondo poetico di Mastroianni non ha nulla a che fare con la categoria della storia nè tantomeno con quelle dello storicismo.
Le misure stesse del tempo, identificabili in una biografia di chiaro stampo odissaico, [..]. a guardarle nell’ottica di quel mondo, ci si presentano stremate e dissolte, quasi che una segreta energia metamorfica le avesse aggredite dall’interno, per trasferirle nella dimensione intemporale di un’essenziale mitografia.
Si può infatti dimostrare che in Mastroianni l’ispirazione poetica centrata sulla magia evocativa della parola (ma anche, preliminarmente, su un assiduo scavo catartico del sentimento, sistematicamente assunto come tramite religioso verso l’inesauribile) trascura per una deliberata esclusione di confrontarsi con gli “ismi” di volta in volta imposti dalle mode e dalle stagioni, per ubbidire piuttosto alle suggestioni dell’esistenza, alle sollecitazioni del personalmente vissuto (e personalmente sofferto), alla ragioni insomma della biografia, ma di una biografia sottratta ai giochi arbitrari dell’autocompiacimento e dell’enfasi, nella riscoperta di quell’entroterra invisibile dove si trova la necessaria e necessitante verità degli archetipi.
Mitobiografia del poeta, dunque.
Ed a questo punto ci si deve chiedere:quale archetipo fa da struttura portante al mondo poetico di Mastroianni? A tale domanda non sapremmo dare altra risposta se non la seguente: è l’archetipo mediterraneo della Grande Madre, Magna Mater, Magna Grecia. Nella lirica intitolata ” Magna Grecia” di Favoloso è il vento l’identificazione della Grande Madre da parte del poeta a livello archetipico risulta perfetta nell’interna musicalità evocativa del ritmo non meno che nell’energia visionaria delle figure.
Pasquale Tuscano- Felice Mastroianni tra tradizione e modernità , in Atti del Convegno di Studi,Lamezia Terme (CZ) 20 aprile1985.
Il saggio è stato ripubblicato dal Prof.Tuscano nel volume Per altezza d’ingegno/Aspetti e problemi dell’attività letteraria calabrese tra otto e novecento Rubbettino Editore – Soveria Mannelli (CZ)- 2002.
Bilicato tra ellenismo, o tradizione mediterranea, e indiscussa modernità, Felice Mastroianni vive e soffre, e testimonia col suo verso, l’ansia di ricerca della saggezza e dei valori del passato, senza l’accorata e vana prosopopea dei tanti stucchevoli laudatores temporis acti, di quelle “favole antiche” che autenticano la nostra identità di uomini – di meridionali in particolare, se vogliamo -, e la struggente malinconia nel vederli ogni giorno più sfuggenti come la sabbia fra le dita, o, del tutto, stoltamente irrisi. Nascono, a parer mio, da questa condizione esistestenziale i più risentiti momenti d’indimenticabili trasalimenti dell’animo che sono delle sue liriche più ispirate. Mi pare che vadano colti in questa prospettiva anche quelli che rimangono i temi chiave dell’intera produzione poetica del Mastroianni: i temi della solitudine, della morte e della memoria, che entrambi comprende e giustifica.
Mario Rappazzo- Cultura mediterranea e poesia di F.Mastroianni in Atti del Convegno di Studi, Lamezia Terme (CZ) 20 aprile 1985.
Tutta la poesia di Mastroianni è filtrata di armonie – disarmonie che formano la particolare differenziata caratteristica della mediterraneità, caratteristica che, passando dalle cose agli esseri, finisce col dare ad essi un senso che li distingue dagli altri esseri viventi, e che si manifesta in modo particolare mediante la poesia. Da Omero a Virgilio,a Dante, a Foscolo,a Leopardi,da Quasimodo a Montale, a Mastroianni, pagine ricche di connotazioni mediterranee, con intrecci culturali, attingono sempre vette profetiche ed echeggiamenti eligiaci, che incardinati negli atteggiamenti frastagliati delle varie personalità poetiche, dinamicamente considerate, sia dentro che al di fuori dei tempi in cui vissero, costituiscono la caratteristica preminente di una civiltà sempre in progresso come la nostra.Felice Mastroianni è profondamente ispirato da questa civiltà e i suoi versi ne formano il controcanto dolente, sia che provenga dalle tempestose notti invernali o dagli ardenti meriggi estivi, sia dalle languide e radiose primavere o dalle malinconie autunnali, sia che si ripercuota nelle risacche delle lunghe spiagge dell’una e dell’altra sponda, sia quando il vento la fa ripetere ai boschi della sua Calabria e risalire dalle vallate alle vette; la coglie nel grido del lupo silano e del pastore errante col suo perpetuo grido di poggio in poggio, o nel lamento della madre sul corpo del figlio morente,ovvero nell’addio accorato dell’emigrante verso luoghi migliori (o creduti tali) e illudenti di vita doviziosa.E lo coglie anche questo controcanto nella voce degli altri popoli che sulle sponde di questo mare soffrono la stessa angoscia esistenziale, ma la coglie soprattutto in quell’Ellade imperitura dalla quale trae le sue origini, che miscela il suo animo al suo sangue, e alla cui fonte di poesia beve i motivi perenni del suo canto.
Antonio Piromalli nella sua relazione:Itinerario poetico di F.Mastroianni, (in Atti del Convegno di Studi-Lamezia Terme CZ, 20 aprile 1985) è il solo studioso che avvicina Mastroianni al Pascoli “delle piccole cose” soprattutto nei versi della prima raccolta:L’arcata sul sereno. Tuttavia sarebbe non veritiero pensare che egli abbia voluto dare un’interpretazione riduttiva della poesia di Mastroianni, in quanto il percorso che egli traccia in modo articolato e puntuale lo porta a concludere:
“Insistiamo,pertanto, sui valori di questa poesia:1) il motivo delle radici della vita quale continuum ideologico ed estetico;2) quello della conoscenza come prosecuzione del mito e delle credenze popolari;3) la difesa della poesia quale concretezza storica ed umana, il rifiuto dell’immagine del poeta corteggiatore d’ombre e di parole;4) l’opposizione alla socio-eligia:
buttiamo via(…)
come seccume di una potatura,
le vane parole
di rabbia e di pianto,
i lamenti dei poeti del Sud.
Mastroianni non compone rapsodicamente; la sua visione del mondo è ben definita dai motivi sopra indicati ma la trasparenza formale è di stampo greco come nella seguente immagine in cui è il rimpianto della primavera per sempre perduta:
Se ne rimane un ricordo,
è come tra sonno e veglia,
d’una cascata di pomi nel solaio,
colti con la rugiada
dalla donna degli orti dorati.
A questo punto la confluenza del Mastroianni nello spirito greco non meraviglia e spiega la sua poesia storicamente come neoclassicismo dotato di filtri moderni che cerca di depurare la realtà poetica sia dagli sperimentalismi che dagli elementi della cultura di consumo.
Mastroanni si servì di quella che Anile chiama, in lui, “capacità di guardare sinteticamente le cose”, come di un filtro. Lontano dall’impegno politico e sociale e dalla corrente letteraria protestataria della poesia calabrese, egli si dichiara anche lontano dalla “menzogna dei miti – che mettono maschere d’oro – sulla storia – dei lutti umani”.
Nei segni che s’intravedono della futura società complessiva – oggi guidata da innumeri persuasori contro i quali il poeta rivendica l’autonomia – la posizione di Mastroianni (una posizione moderata ma autentica), testimonierà la fedeltà a una tradizione che infrena gli arbìtri e la provvisorietà del modo spesso disumano in cui la cultura si unifica. Poichè l’unificazione dovrebbe svolgersi senza violenza la poesia del Mastroianni non è un episodio ma un’indicazione: che il cuore del futuro deve conservare ritmi non distonici e pulsazioni non convulse.
Giuseppe Mascaro in Mito, Natura e Fede nella Poesia di Felice Mastroianni – Soveria Mannelli, 1979
Dal cozzo tra l’insoddisfatto desiderio dell’anima arsa dalla sete di verità, e le imprevedibili vicissitudini del mondo, sgorgano i versi – puri e cristallini, protesi alla ricerca delle ragioni dell’Essere- di questa meravigliosa lirica L’arcata sul sereno, di respiro leopardiano, che oltre a dare il titolo alla raccolta di poesie di Felice Mastroianni, offre all’autore l’opportunità di tracciare una linea programmatico-poetica alla quale cercherà di restare fedele nella produzione più matura.
I concetti filosofici si risolvono e si sostanziano in una espressione pura di poesia, dove confluiscono il microcosmo, la natura rigogliosa e i ricordi del passato.
Dal profondo degli abissi del tempo l’anima muove il suo volo, ricanta la vita in un flusso d’eterni ritorni, sempre nuovi delle cose, e sale a spaziare sui campi smisurati del firmamento, ove fissa i ferrei confini che separano la mente umana dall’infinito. L’uomo nasce col dolore e nel dolore trascorre il suo breve tratto di esistenza; questo aspetto è sempre vivo nel poeta, che anela soltanto di superarlo col canto soave della “poesia” nella quale la sua anima si sublima e trapassa oltre i limiti del tempo per vagare dolcemente verso i supremi lavacri della luce, oltre il confine breve della sua ombra terrena.
Alfredo De Grazia- Il paesaggio ed il vento in F. Mastroianni, in Atti del Convegno di Studi- Lamezia Terme (CZ), 20 aprile 1985.
[…]Tutta la poesia di Felice Mastroianni è linguaggio di paesaggio vivente in un senso temporale che chiama fuori del tempo, spaziale che chiama la metaspazialità, presenza e assenza, antico che chiama il futuro, storia dentro l’infinito, circolarità aperta esistenziale del mondo agricolo contrapposta al tempo chiuso della metropoli urbana, immanenza e trascendenza. Sono temi ricorrenti nel suo paesaggio non contemplato ma goduto, sofferto, vissuto con identificazione sorprendente.[…]
In questo paesaggio ha un particolare significato il “vento” che ne assume lo spirito nel suo significato di forza vitale in senso biblico, ruha è l’antico termine che assume diverse accentuazioni dello Spirito di Dio, origine di vita (Gen.1.2),giudizio(Is.30.27-28), condanna e forza devastante, (Os.13,15 salmo 18 v.16) è sottile e confina con l’immateriale, è universalmente presente, è irresistibile nel suo proposito e l’uomo non può predire nè controllare la sua direzione o la sua forza. In F. Mastroianni che ricorre alla sua figura in ben 80 poesie, anima il paesaggio, lo trasforma e lo significa impetuosamente, teneramente, o lo rinnova. Vento che non è dell’uomo, ma segno e “sun-ballo” di volontà che vive nella storia con il suo essere sempre impenetrabile e oscuro per la mente umana.
[…]Non si può dire che ci sia in F. Mastroianni una ” superstite bucolicità novecentesca” quando invece c’è la consapevolezza profonda della distanza dalla contemplazione, o “un ripiegamento sul passato”, quando c’è una profonda acutezza nella lettura essenziale della crisi epocale e un avvertito e fermo richiamo sul senso proprio della vita umana e del suo mondo trascendente, nè vi è la conoscenza intesa come “prosecuzione del mito e delle credenze popolari” bensì come cammino e destino dell’uomo che deve guardare oltre la sua precarietà e verso l’ombra stessa delle cose e della loro esistenza con gli occhi rivolti alla trascendenza più pura.
Mario Sansone (Presidente del Convegno)
Dalla relazione conclusiva della mattinata.
[…]Mi pare che attraverso tutte queste relazioni e i punti più caustici, dico caustici in senso originario, brucianti, delle relazioni, risultano queste cose fondamentali che già sono dei punti fermi:c’è il mondo della classicità, c’è la nostalgia della classicità in Mastroianni, ma non come qualcosa che lo allontani dal tempo moderno, nè nega il moderno per la classicità, ma sente come una storicità intrinseca e organica e può guardare al paesaggio georgico e lirico, recando dentro di sè, sempre anche quando non lo dica espressamente, questo mondo; in che consiste quest’ altra metafora, che potremo dire la “mediterraneità” della sensibilità di Mastroianni.
L’altro punto importante, che è ancora un tantino in discussione, è che mentre Piromalli pare avvertire una certa parentela e una certa suggestione sul versante di Pascoli, Tuscano allontana nettamente da quel versante[…] Però, tutte e due, tutti e tre, tutti e quattro che avete letto le relazioni, escludete un abbandono, una tentazione qualsiasi da parte del Mastroianni verso il cosiddetto decadentismo, e verso quelle forme più suggestive e più cattivanti quali potevano sembrare quelle dei giorni in cui egli ha svolto la sua opera poetica.
A questo si aggiunga una forma di linguaggio che è una sintesi personalissima di tradizione e modernità.
Mi pare che questi tre o quattro punti nodali, cioè collocazione storica, rapporti col decadentismo, collocazione storica ideologica, rapporti con l’antichità, modernità vivente come continuazione e come sensibilità nuova ed innovata, novità del linguaggio, esclusione più patologiche del decadentismo, mi pare che siano già acquisiti e costituiscono temi fermi della discussione[…]
Il poeta greco e sodale di F. Mastroianni Febo Delfi così scrive nella prefazione a Quaderno di un’estate.
[…] Con viva commozione oggi metto mano all’opera di Felice Mastroianni, che è tutto un cuore palpitante dell’Ellade, degno figlio di Calabria e della Magna Grecia, che ha sentito il bisogno di parlarci nel linguaggio neo-ellenico e naturalmente d’incantarci e stupirci. Se non facessi questa precisazione, chi potrebbe comprendere la sua provenienza?
Ha scritto dunque nella nostra lingua le sue poesie, per dimostrarci il suo amore per la propria origine greca. E ciò è qualcosa che desta meraviglia, per il fatto che sono scritte con tanta finezza e in una lingua neo-ellenica così irreprensibile da conservare tutta la freschezza e la vitalità, e in essa racchiude il segreto dell’incanto poetico.Poesia limpida ed eterea d’ape o di farfalla sul fiore ellenico. Come stille di dolcezza la gustiamo, e scende in noi con le note armoniose e con la forza dell’eterna poesia. Poesia che canta dolcemente, sgorgante e limpida, come il ” corpo nudo della fonte “, con le melodiose onde del dolore, della nostalgia e della malinconia, che si offre a noi in mattutini di rose come nettare. E come giustamente ha osservato Andreas Tsoùras quando gli ho letto per la prima volta queste magnifiche liriche:”in questa poesia si rivela nettamente la fisionomia di un poeta.[ …]
Febo Delfi nella prefazione a Primavera.
[…] “I suoi versi hanno l’aureo contrassegno dell’arte creatrice. Sono come pure e spontanee confessioni e colloqui. Il nostro poeta scrive come parla, con tutta la sincerità e semplicità dell’anima; e questo è sempre il segreto della grande arte. Semplicità significa profondità. La spontaneità è poesia […].
Tutto qui è semplice, spontaneo, chiaro, vivo, trasparente, come il cielo ellenico. Mediterraneo il clima del poeta, gorgoglìo della fonte Castalia. C’è il rimpianto per il paese, per la terra natìa, (versi impastati del ricordo di un’epoca d’oro), per le usanze scomparse, per il mito perduto e insieme una volontà di ricreare il tempo che fu. La restaurazione delle rovine del passato quanto più sa che non serve a nulla, tanto più ferisce la sua anima, eppure sempre si aggira intorno ai luoghi cari dove vide per prima la luce, visse e crebbe.Con saggezza e garbo ci viene offerta tutta questa rassegna del passato come un corpo vivente che ancora respira e soffre. Qualcosa come rimpianto che brucia toccherà la tua anima, lettore. Rivivrai la tua stessa vita in queste pagine che soffrono e sognano come presenze umane, intrecciate di realtà e di favola. Tutta la costruzione è lirico-sentimentale, ma fatta di solide pietre.[…]La lingua è esemplare, viva, fresca, piena di grazia e di gentilezza […]
Iannis Eftivulu Tsuderos in “Rivista critica” del 26-11-1978
«…l’arte poetica di Mastroianni inizia esattamente dalla sua capacità di vedere questa bellezza, di identificarla con l’etica che richiede di esprimerla di conseguenza con suoni, colori, schemi ed immagini, come è giusto che sia. E possiamo dire con sicurezza che la poesia di M. è icastica nel senso che è una sintesi di suoni, colori e schemi, di immagini e di moto di danza. Ed è mirabile la facilità con la quale sa vedere ogni cosa nella natura,che lo circonda, ma anche quella facilità con la quale sa scegliere la collocazione che gli compete nella sua poesia. Certo che una simile destrezza presuppone anche uno straordinario controllo di ogni parola del vocabolario neogreco come strumento di poesia figurativa.
Michele G. Meraklis in “Nuova Marcia”, Salonicco, genn. marzo, 1979.
“Non c’è dubbio che onora noi Greci con l’amarci tanto, con il dono della sua voce poetica che possiede una rara chiarezza accompagnata da una sottile suggestione,ricca di spiritualità. Del resto l’uso frequente in poesia del significato di parole diverse aumenta questa suggestione, che richiama alla memoria l’analogo caso di vibrazione poetica di Sarandàris”.
Mitsos Katsinis Atene,2-3-1982
“La bellezza della creazione, la conoscenza della versificazione e gli elementi sociali compongono una poesia libera dall’insostanziale e dall’antiumano e il lirismo con la visione e le sensazioni valorizza al massimo l’essenza costruttiva con l’autenticità spirituale e la solidità tecnica; per questo la poesia di Mastroianni diventa essenziale e vera. La parola in lui con l’interiore policromia è un messaggio senza limiti d’amore che commuove con la sua semplicità e la sua disposizione filosofica”.
Stelios Artemakis in “Mondo libero”,27-9-1976
“… il poeta rende la tragica essenza del nostro tempo nonchè la verità non soltanto dell’arte, ma anche della vita. Una verità che si condensa nei versi che seguono e nei quali è condensata un’amara sapienza:”dietro gli idilli/il dolore del mondo”.
Angelo Furiotis (in “Akropolis” deI 16-10-1979)
“II poeta qui non ci avvicina tanto per avvicinarci. Ci avvicina per parlarci con calore e con semplicità di anima per cose che viviamo, perchè possiamo vedere dentro di esse il nostro stesso mondo interiore”
Giudizi intorno a “Quaderno di un’estate”
D. A. Kokkinos
” Così ,questo poeta lirico, che ha non solo origine,ma anche spirito greco, fa il suo ingresso nella nostra poesia come qualcosa di naturale, che è della stessa terra e dello stesso sentimento del puro temperamento lirico della nostra arte”
- Papadimas
” Il vostro splendido dono è indirizzato a tutta la Grecia, il cui cuore palpita senza tregua, direi per la nobile patria spirituale. Così il canto diviene ispirato, impetuoso, respirando nell’universale.”
- Pratsikas
“Un poeta ritrova l’antica patria e una patria ritrova un suo vivente e valido poeta.”
S.I. Artemakis
“È commovente la dedizione di questo poeta italiano all’eterna visione ellenica. Ed è pregevole il modo in cui è espressa”.
- Papastamos
“Davvero con pathos e sincero entusiasmo si esprime la poesia d’ amore ellenica di Mastroianni”.
Filippo Maria Pontani
“È il greco demotico della Grecia, la patria perenne nelle modulazioni morfologiche, lessicali, stilistiche dell’esperienza attuale, sicchè F. Delfi, nell’affettuosa premessa, include giustamente Mastroianni nei libri anagrafici (o come dice, nel coro eletto) della poesia neogreca”.
Costantino Nikas- La lingua neogreca nella poesia di F.Mastroianni,( in Atti del Convegno di Studi-Lamezia Terme,20 aprile 1985.)
[…] La verità è che la lingua greca non gli è connaturata:è una sovrapposizione…Ciò nulla toglie all’importanza che nella lirica di Mastroianni hanno le antichi radici culturali, il cosiddetto Ellenismo.[…]
Un poeta, grande o piccolo che sia, deve esprimersi nella propria lingua, quella che gli è veramente congeniale, perché nasce insieme e si fa una cosa sola con la sua ispirazione. Quando vuole cimentarsi in altre lingue, può compiere esercizi letterari, tirocinio di dilettanti, può fare vezzo se gli aggrada, ma, oltre ciò, difficilmente può andare.Il caso di Solomós è solo in apparenza diverso, anzi è emblematico, nella sua unicità: malgrado la sua perizia nell’italiano, occorre riconoscere che nello Zantiota l’ispirazione realmente genuina si manifesterà in ritardo, ma nella lingua greca. Lo stesso possiamo dire qui di un altro poeta grande,zantiota, però italiano, non greco: parlo di Ugo Foscolo, il quale conosceva il greco, aveva composto versi in greco, però non è poeta greco, è poeta, grande, italiano.Non vorrei pensare che Mascaro e Delfis abbiano intenzione di convincerci che l’analogo itinerario del Mastroianni sia più convincente o, meglio, abbia avuto esiti più convincenti dello stesso Solomós. Sarebbe veramente un paradosso, ma più che altro non gioverebbe alla fama di un poeta del nostro tempo, il quale ha espresso in maniera autentica sentimenti, aneliti e problemi che ci uniscono, Italiani e Greci, consapevoli delle comuni radici culturali. Questo mi piace riconoscere in Felice Mastroianni.
Fedele Mastroscusa- Felice Mastroianni:Un poeta,due lingue( in Atti del Convegno di Studi-Lamezia Terme,20 aprile 1985.)
[…] L’uso del volgare, della dhimotikì fu accolto nelle scuole nel 1917: coincidenza nella cesura del quarto di secolo con la riforma ortografica del russo nel 1918, e con le riforme del bulgaro nel ‘ 21 e nel ‘ 23 (con il bùlgaro vi sono altre concomitanze: la lotta fra lingua colta e lingua volgare, la semplificazione dell’ortografia, la caduta della flessione nel cammino incessante dallo stadio di lingua sintetica a quello di lingua analitica).
Lingua novella la dhimotikì, di vari e mutevoli sapori, come un miele, ora
asprigno per i fiori del castagno (la ‘giurranda’ di Eutichio), ora dolce per
i fiori della gaggía, ora profumato di zagare o di rose.
A tale Grecia approda Eutichio.
Approdando anche noi a questa terra di pionieri, andiamo a leggere, o rileggere, i versi di un isolano inquieto della generazione del ‘ 20: un poeta di umori estrosi e battaglieri, in consonanza col nome marziale, Aris Dictèos. Ecco, con parole nostre: “Un pino, due pini, tre pini… la gente misura il tempo coi passi, io misuro il tempo con gli alberi. Una donna vestita di rosso, un’altra donna, un’altra… Misuro il tempo con le donne rosse”.
Nella conclusione è sottoliniata l’inutilità dell’attesa, del tempo che scorre, del nostro contare, del nostro misurare.
Seguendo la movenza suggerita da Aris Dictèos, ci chiediamo: come misura il tempo Eutichio? Il poeta inquieto, che si sdegnava della ‘nobelità’ di Sefèris, suggerisce: “Una lingua, due lingue, tre lingue… Misuro il tempo con le lingue’ , .’Con altra lingua’ , me alli glossa, è un titolo dal Quaderno d’un’estate; e altrove troviamo stin alli glossa, ‘in altra lingua’.
Ma Eutichio non corre soltanto da un capo all’altro, dall’italiano (di oggi)
al greco (di oggi). Risale alla sorgente, e discende per l’altra riva. Ha appreso, nel corso degli studi, il latino e il greco. Ha sentito l’incanto della lingua degli dèi. (Ha appreso, ha sentito, dicemmo, chè quell’apprendere e quno, due, tre: numeri come intervallo, come cesura, come separazione), ma si vive il tempo in un ritmo di ascesa e discesa, di flusso e riflusso, con processo continuo, come di el sentire continuano a vivere nei suoi versi).
[…] Eutichio sale alle sorgenti, percorso di anaglossìa, e poi discende, percorso di cataglossìa, per li rami di una lingua, per li rami del tempo. Non si misura più il tempo (‘un pino, due pini, tre pini’), non affluisce più l’attesa (usìstole e diàstole. Mentre il linguaggio, per la scala dell’anaglossia e della cataglossia, cerca di diventare tempo, abbandonandosi, donandosi al respiro del tempo, si va spengendo l’attesa, e l’arte vana del contare, si spenge l’angoscia.
Vincenzo Mascaro- Felice Mastroianni alla luce della poesia greca (in Atti del Convegno di Studi-Lamezia Terme,20 aprile 1985.)
[…] Come è avvenuto che il poeta,calabro sia penetrato nel tempio della poesia greca contemporanea? Perché non sarebbe stato sufficiente il suo amore, per la Grecia classica e anche moderna, l’adorazione cioè di tutto ciò che è greco. Un ruolo fondamentale ha certamente giuocato la frequentazione dei poeti neogreci, come Kavafis e Seferis per esempio, e non si escludono neppure gli altri, anche minori e più vicini alla sua sensibilità, al suo temperamento di uomo e di artista. I poeti greci sono diventati, per mezzo di un’attenta e paziente lettura, i suoi amici, i suoi maestri e colleghi. Questa assimilazione, questa evoluzione che potrebbe a prima vista, alla prima lettura della sua trilogia neogreca sembrare apparente, era invece diventato un fatto reale. Mastroianni era diventato, anche se ciò era dovuto ad un inconscio processo di assimilazione, un poeta greco anche lui. “Si naturalizza poeta ellenico”, afferma semplicemente Febo Delfi. La poesia greca è diventata carne della sua carne, sangue del suo sangue. Egli pensa e sente come un vero poeta greco per un fenomeno naturalmente magico di transustanziazione.
Egli riesce a disegnare poeticamente immagini sopratutto chiare, quasi parnassiane, plastiche, ricche di vita simili un po’ a quelle prospettate dal Lessing. È l’insegnamento di Kavafis. Compone cioè sotto la spinta di un’esigenza intellettuale di natura emozionale, sorretta però dal sentimento e dalla sua profonda umanità. In questo è veramente se stesso, non ha modelli da imitare.[…]
Alfredo De Grazia in Felice Mastroianni:”L’uomo del ritorno”
Presentazione critca a” Quest’ombra sul terreno”
[…] Di fronte alla crisi dell’uomo, che voleva imprigionare il rapporto dialettico con il mondo dentro schemi e valori di scambio codificati, nella prassi quotidiana, in funzione del potere e del dominio della natura, che è all’origine del congelamento della presunzione positivistica nel nichilismo, come sconfitta di tutte le possibilità, Mastroianni ci offre un rapporto dialettico che apre in modo penetrante un ritorno all’autentico, che disvela l’essere delle cose e del mondo al di là di aspetti pragmatici, cercando radure e assonanze originali, nel rifiuto, non ostentato, del linguaggio di apparenza, per cercare invece il cuore delle cose nel tentativo di ascoltare la loro voce con la meraviglia che sa esprimere e trasmettere al lettore, unendosi in “reciprocità” con esso in assonaze armoniche. Egli affida senza sforzo al lettore una quasi primitiva e originale comunicazione, come una epifania delle cose semplici del mondo, della natura e della vita.[…]
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Viene da pensare al ” fondamentalismo” di Heidegger e al “Dasein” come il nodo più importante della poetica del Mastroianni. Egli non conosceva il filosofo tedesco, ma nei suoi versi troviamo proprio quell’ascolto, quell’esserci, quei rapporti fondamentali, quel significato del quotidiano, quelle luci di presenze o assenze delle cose, in cui il logos non si separa dall’umano e rende possibile”la comprensione della spazialità esistenziale dell’esserci”(Heidegger), cercando una condizione vivibile nel ritorno alla natura, in cui la vita è disvelamento e per cui il suo è un viaggio dall’esilio verso la patria d’origine: l'”Heimkehr, ritorno al sacro focolare nel mondo degli esseri”, via della salvezza che il poeta garantisce tra il nichilismo e la devastazione spirituale.
È in questa condizione di viaggio che Mastroianni si riappropria della presenza delle cose nel suo rapporto esistenziale, nella vulnerabilità del suo stato psicologico e sociale, segno ricorrente nella sua poesia di testimone acuto, sofferente senza compromessi con le conquiste scientifiche e tecniche, senza indulgenze verso il consumismo imperante, indicando, proprio nel ritorno ad autentici rapporti esistenziali, una serena e cristiana accettazione della vita e della morte, dove il “vento”, molto ricorrente come espressione dello spirito dell’essere e del destino che viene da lontano e verso isole d’oro, è il simbolo preferito dell’imprevedibilità del viaggio e del profondo rapporto uomo-realtà. È nel silenzio o disinteresse del poeta verso ciò che i contemporanei esaltano nella propria quotidianità, scambiando la natura con la “Tecne”, che si chiariscono le scelte poetiche di Mastroianni. Contro la svalutazione platonica degli oggetti e contro il potere di conoscenza usato per fini distruttivi dall’uomo, preferisce l’armonia tra l’uomo e le cose, cogliendo nelle sue immagini rapporti autentici nel tempo, nello spazio e nella storia umana, il senso di donazione e di accoglienza reciproca come le uniche certezze:” di là nella vecchia cucina / un antico odore di pane / in sere di lumi /( e i vostri occhi) / forse è più vivo nel ricordo / che non la mia ombra stanotte/”(Sola-Favoloso è il vento-Ed.Maia, Siena, 1964.) […]
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Nel ritorno all’ Heimkehr trova profonda coerenza l’identificazione della patria di origine nella Grecia, madre del cui seno si sente figlio esule. Ma ci domandiamo: cosa c’è in questa forma di pan-ellenismo che investe la sua poesia? Quale la ragione più autentica che è all’origine del suo scrivere direttamente in versi neogreci, il suo continuo richiamo a quella patria remota, l’affezione che lo lega ai poeti greci contemporanei e a quelli più antichi? Queste scelte sono piuttosto conseguenza di una situazione emozionale che dobbiamo intuire o disvelare, non potendo fermarci alla constatazione e registrazione di questi aspetti senza individuare la loro fonte nascosta.Occorre considerare che il mondo greco in genere ha sempre esrcitato un fascino particolare sulla cultura occidentale, e ha avuto una funzione di stimolo determinante e ricorrente, sostenendo anche alla radice tutte le ricerche filosofiche, tant’è che molti sostegono a ragione che tutta la nostra cultura è essenzialmente ellenica. Già in epoca romantica, però, troviamo decise tracce di diverse letture del mondo greco. In Foscolo il mito della bellezza classica e dell’armonia formale sostiene l’illusione della vita, mentre in Hölderlin, che restò estraneo allo stesso Romanticismo, la Grecia è presente, contrariamente al classicismo dell’epoca, come rimpianto di un mondo pacifico e armonioso della provvida e amante natura agli albori della sua civiltà. Nel nostro tempo, nella consapevolezza dell’attuale decadenza, domina anche la lettura di due diversi momenti della Grecia antica. Il primo trova le sue voci in Parmenide e negli altri pensatori dell’essere, nella poesia di Omero, di Orfeo ,di Lino, nei grandi tragici. In essi la natura e le vicende umane sono partecipi di un religioso rapporto di immedesimazione di essere, pensiero e linguaggio, di etica e di estetica, in cui vita e morte s’incontrano in una visione eroica, ludica o tragica, dove il corso del sole e delle stagioni sono l’orologio stesso della vita e dove non c’è separazione tra il sentimento e la razionalità, di modo che il pensiero è l’espressione pura e luminosa dell’impulso genuino che si esprime nella parola, simbolo autentico dell’essere e della sua accoglienza. Nel secondo momento influenzato da Platone e Aristotele, comincia la separazione tra il pensiero e l’essere, fondando una razionalità basata sull’armonia del rapporto tra conoscenza e oggetto. Da qui si sviluppa un processo conoscitivo che si nutre di idee e forme costruite dall’uomo,che sostituisce alla tecnica(Technè) non provocatoria della natura, la tecnica del dominio(das Ungeheure) e della distruzione fino alle metodologie contemporanee che, propugnando la neutralità della scienza, hanno separato gli oggetti dall’ambiente e dalle loro relazioni esistenziali .(G.Steiner-M.Heidegger-Ed.Sansoni) Alla radice della poetica di Mastroianni abbiamo individuato il conflitto profondo che egli ha vissuto fra il rifiuto della devastazione del suo tempo e della disumana condizione dell’esistere, che lo fa sentire esule tra gli uomini, e il richiamo della terra,dell’antica innocenza nel rapporto autentico con la natura. In ciò il ritorno diventa strada di riconoscimento e di rigenerazione, nella piena consapevolezza del senso tragico della vita, dell’impenetrabilità delle cose accolte come donazione e senza astrattezze, superando l’artificio linguistico per attraversare il tempo in un abbraccio tra passato e presente nella sua dimensione esistenziale:” forse le nostre anime/ per prima si incontrarono/ sulle rive dell’ Ilisso/ nel tempo più felice/ del cuore del mondo.” La radice,quindi , del forte richiamo verso il mondo greco trova nella poesia un momento di consapevole pulsione, nella coerenza della sua vita e della sua opera. Perciò la sua grecità non è un’etichetta erudita, nè una strada retorica, ma una spontanea e autentica dimensione, man mano che riconosce se stesso e le proprie assonanze con il mondo greco originario e con i simboli esistenziali scaturiti dalla notte dei tempi nel rapporto dionisiaco con le cose. Da tutte le sue opere emerge un paesaggio che contrappone a quello costruito dalla tecnologia dell’uomo, sottolineando la fresca innocenza del rapporto con la terra dove abita e di cui avverte il richiamo come un approdo per ritrovare se stesso nella riconciliazione con le cose. Come Holderlin, con il suo Iperione, vuol tornare dalla fredda notte degli uomini,[…] 1) per ritrovare le sue colline, i suoi platani, l’erbe e i fiori, le lucciole e i ruscelli, la sua luna, l’odore del pane, il vero abitare dell’uomo con la natura e il suo spirito e le cose più semplici e trascurate. È un paesaggio più vero di quello che ha costruito l’uomo nelle megalopoli, è un paesaggio”forma e materia dello spirito umano e della sua storia, nell’unità dell’uomo e della natura”.È questa la forza più autentica della poetica che, nelle immagini e nei simboli, nella consapevolezza e nell’inconscio, è radice profonda del nostro poeta che attraversa il nostro tempo e l’arrovellarsi umano e richiama ad una conciliazione in cui la Grecia antica, terra di miele, di canti, di fiori,di bellezza è simbolo e metafora, nel testo italiano e in quello neogreco.[…]
1) F.Holderlin- Iperione. Ed.Feltrinelli
Oreste Borrello
La poesia dei ” Ritorni ” in Felice Mastroianni. In atti del Convegno di studi – Lamezia terme, 20 aprile 1985.
“Sono tornato là/ dove non ero mai stato”…: la voce del poeta – è quella persuasiva di Giorgio Caproni – intende significare una consonanza, magica ma non veramente metalogica, con la nuova epica del Nostos accomunante una categoria di clercs assegnatari di una più complessa “ragione del vivere”. Uno “spirito del tempo”, appunto il nostro, che, incerto come non mai circa un positivo senso assegnabile al suo futuro, si ripiega abbastanza spesso sul passato.
I poeti lo fanno con intendimenti i più vari; la storia non si ripete, eppure fondamentalmente uguali sono le costanti dell’itinerario umano. Felice Mastroianni non è il Federico Mistral della Calabria, epperò c’è un suo quasi felibrismo importante, che, consistendo in una suggestiva poetica di un ritorno a largo spettro, di cuore e di mente, alle radici, permette di incominciare a parlare di lui, del poeta calabrese, partendo dal dolce aedo della Provenza, vissuto circa un secolo prima e certo pittosto dimenticato. Invece che, come sarebbe alquanto di prammatica, dal quasi conterraneo Quasimodo;dal traduttore cioè più ammirato della più pura, essenzializzata poesia di stampo greco classico, nella quale fin troppo pacificamente questo siculo-lombardo premio Nobel viene analogicamente sospinto. In realtà, Quasimodo rimpiange poco o niente del modo di vivere dei suoi ipotetici antenati magnogreci, preso com’è da un presente tutt’altro che culturalscolastico. Tindari – per servirci di un esempio appropriato, che non richiama riserve- il poeta la sa mite ed il vento della rupe “pensile” sull’acqua gli parla di una gioia non più sua, del poeta in esilio più o meno confortato da fatti sentimentali pochissimo ellenici.
Minstral invece è tutto proteso verso un passato quale suprema ragione del suo canto; ed è la terra di Provenza il motivo di un felibrismo che riesce a riscattarsi dal pur forte sospetto di moda letteraria, avendo assunto i caratteri di una sana sincera nostalgia.Questa corrisponde perfettamente alla speranza di un impossibile ritorno all’irrevocabilmente trascorso ma irrinunciabile mito, all’esigenza di una rinascita del bello e buon tempo antico; ed insieme, è nostalgia attualizzantesi, ciclicamente, per l’inconfondibile odore di perenne destra politica che da essa promana(…).Sarà bene osservare, preliminarmente,per sgombrare [ il campo da ogni equivoco], che il credo politico di Mastroianni non è elitario […]. Il passato “eroico”, il rammarico per un’inverosimile epopea della gente italica non riguarda questo poeta che si proclamò, pure, montanaro, appartenente ad una civiltà contadina, ben lontana anche da quella malapartiana dello strapaese. Del negativo storico – della storia italiana che lo riguardò cronologicamente nell’età decisiva per i convincimenti politici, del ventennio – egli si sbriga con l’encomiabile franchezza di un rapido giudizio, reso in sapida immagine, sulla cartapesta del titanismo fascista.
Il disiganno è esposto senza esitazioni, con la limpidezza che caratterizza il discorso di un’intera vita: Mastroianni sa e dichiara di appartenere alla generazione la “cui giornata / s’aprì col padre al fronte / e le cartoline in franchigia”; cosicchè “quando dopo vent’anni/ noi figli di quella vittoria,/ noi cresciuti per gridare sempre “vittoria” / sentimmo il ritmo del sangue /battere” il passo romano” delle parate,(Lucciole sul granturco) tutto è scontato. È in tal modo che la droite di Mastroianni si sottrae definitivamente, anche se non gioiosamente, al caduco di una storia trionfalistica che a lui si è rivelata, nel suo rovescio migliore, cronaca: per un motivo straordinario, avvincente, perchè nell’uomo, proprio la cronaca, il quotidiano, il più umile e consuetudinario diviene superbamente storia.
Storia esiodea e critica insieme: le mirycae, gli Erga kaì emèrai di Mastroianni non sono piccole profumate piantine poetiche e non vogliono insegnare niente a nessuno, ma attingono nel ritmo giornaliero un sentimento che non è mero rimpianto, è visione classica, cioè superiormente logica, della vita. Parole grosse come sarebbero sembrate al poeta ma necessarie per capire che il ritorno da lui intuito, forse interamente voluto, è quello ad una socialità mai disegnata per l’innanzi: non politica, ma ugualmente collettiva, di alta aristocrazia perchè di antichissima nobiltà teogonica, divina e della terra. Ecco perchè i poeti più pensosi tornano là dove non sono mai stati, dove non potranno d’altra parte mai tornare:è la Rache, il bisogno di vendetta di Nietzsche verso il “fu” che non potrà mai essere l'”è”; è la desolazione, anche dolcissima e struggente del leopardiano “passato ancor triste e il dire io fui”. Soprattutto, nella più vigile poesia moderna, nella forma del dolente sarcasmo del disincanto, è percezione dell’assurdo e irrinunciabile risorgere del mai sorto. Idea senza scampo storica e sociale nella stessa negazione o pretermissione, essa ha vita poetica in Mastroianni con modalità espressive che attendono una loro sistemazione critica su una terra finora di nessuno. È quella propria di un’attività colloquiale intenta senza parerlo a stabilire un clima d’intesa al di sopra delle parti, senza inquinamenti di nessun genere, neanche del più sottile di un’improbabile metafisica lussureggiante o meno di simbologia. Viene a configurarsi invece, nella poesia di Mastroianni, una realtà di movenze immaginative e sentimentali, con nome e cognome, diremmo, dati apertamente, epicamente quindi, per una classicità che è tale per acquisizione e per temperamento del poeta che dolora e gioisce nel ricordo. Solo che questo lirismo della rimembranza si rivolge di preferenza ad intenditori disposti a rientrare, con Mastroianni, nella cronaca, da cui sortire in quella storicità autentica dell’anima non sempre saputa cogliere dall’elzevirismo esegetico emunctae naris.
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[…] La Grecia, così, entra in discorso con i fili della sua storia intrecciati indistricabilmente con la Calabria, la Magna Grecia di una antichità contemporaneizzata con un’operazione di recupero di straordinaria e per noi assai problematica portata, compiuta da Mastroianni e dai suoi Amici poeti . Il suo programma è accennato nella composizione dal titolo Al poeta greco Febo Delfi, al “fratello dell’altra riva”,come, commutativamente, Delfi chiama Mastroianni. Questi chiarisce: fratello “dei sogni perduti”,protestando di raccontare, stavolta “alla buona”, di una solitudine vissuta “in giorni lontani”, nella fanciullezza fra ruderi antichi, “tra i marmi dorici della mia terra”. Qui si fa strada la volontà del poeta di un ritorno all’Ellade,per la quale si può chiarire subito una cosa:non ha nulla a che vedere con qualsiasi altra magari celebre operazione letteraria neo-classicheggiante.
In Il riso delle naiadi è Anfora di Magna Grecia, la breve lirica che contiene la professione di fede impegnativa di tutto il resto dell’esistenza culturale di Mastroianni. Provocata,la dichiarazione, dalla vista della “anfora dissepolta/splendore di vergini”,certo: e lo sviluppo delle immagini è vigorosamente bello nella linearità del sentire. “Quali fontane ne empirono il tuo giovane cuore!”; il poeta si lascia coinvolgere, affascinato, nel mito della patria perpetuamente perduta e ritrovata, ma mai veramente raggiunta, ed è in questo il magnifico controsenso che giustifica Anfora di Magna Grecia. Dove viene tuttavia a porsi il problema, singolarmente psicologico perchè poetico e poetico proprio in quanto psicolologico, del senso stesso della poesia di Mastroianni nel nodo non sciolto, che anzi appare del tutto chiuso, della sua grecità.
“Sono radice anch’io di questa terra/ e mi punge profonda eredità d’esilio/d’una patria remota”: il mito di moderno argonauta alla conquista delle vello d’oro delle origini mai ha trovato attestazione più esplicita ed insieme più umbratile. Mastroianni crede di aver individuato la sua origine in una pura Ellade ed invero egli insegue un miraggio insignito di una suggestiva verità. Quella della presenza degli amici greci, appunto, della realtà stessa della partecipazione del poeta alla loro avventura culturale, scrivendo così una pagina interessante della letteratura europea. In un settore particolare, per di più, oltremodo segnaletico di una maniera di spendere una celebre eredità posta ingiustamente da parte. È l’ellenicità non di Bisanzio(…) ma proprio della Magna Grecia”,nella ripresa di una civiltà che, nelle anfore greche continuamente dissepolte, faccia cercare oltretutto quanto Mastroianni chiedeva agli amici greci “ritrovati”. Cioè la soluzione, o una maniera nuova d’impostarlo, dell’enigma: come, rivolti alla Grecia nell’atto del disseppellimento di un’anfora riempita da chissà chi, ci si possa legittimamente chiedere quali fontane della propria patria, la Magna Grecia, le abbiano riempite, restando calabresi. E questo dopo aver chiesto al più celebre dei fiumi, il Savuto (Sabatum per i Romani): “In me la tua sorgente,da un mattino/ d’azzurri laghi e di resine ( Foce del Savuto in Riso delle naiadi). Dove a pensarici bene non c’è contraddizione, quanto l’affermarsi di una logica diversa, quella della convivenza poetica degli inconvivibili, di un passato- la patria greca- incontemporaneizzabile col presente – la Calabria, il bruzio Savuto che nasce nei pressi di un lago artificiale della Sila- eppure uniti dall’atemporalità della poesia. Si ripete per Mastroianni – in una temperie diversa per un confronto che esclude scale di valori – quanto clamorosamente, nell’eco perdurante del grande rilievo storico- letterario, avviene con Hölderlin. Una somma sensibilità poetica è indotta a rinvenire le proprie scaturigini culturali nella culla della civiltà occidentale, la Grecia. E ciò non genericamente, bensì con avanzate innumerevoli proteste di una riscoperta personale identità, capace di ribattezzare nazionalmente l’uomo moderno in figlio dell’Ellade.Inoltre per entrambi, Hölderlin e il Mastroianni non più accostabile al Mistral per le vantate radici patriotticamente contadine, la ricerca di una patria scomparsa nella storia ha luogo su due fronti. L’uno, solo apparentemente dal largo congeniale commento, del ritorno, l’altro ancora lasciato nello stadio del generico, buono ad ogni uso filosofico ed estrosamente critico, denominabile, e denominato di frequente, delle sorgenti. È a questo secondo che appartiene il privilegio di rappresentare un tormentato punto nodale dell’interpretazione della poesia del grande Hölderlin. Intorno al quale certo è stato detto, e si continua, non di rado piuttosto esotericamente, tutto o quasi tutto per quel che riguarda il suo culto nostalgico fortemente protoromantico di una perduta originaria bellezza. Di una greca visione del mondo divenuta appunto perchè protoromantica, tedesca nell’accostamento, con tentata sua identificazione della Grecia alla Germania (” i veri Greci siamo noi”, fu del resto una convinzione, addirittura filologica- la loro grammatica con le declinazioni ecc.-dei tedeschi di fine Settecento).Soprattutto, si trattava di un ritorno alle supposte radici greche da parte di un Hölderlin per un fenomeno, da tanto posto in giudicato, che cerca ora la sua più probabile verifica non più solo nell’immagine nostalgica della vera Madre Grecia, bensì in un altro grandioso quanto autenticamente antico, classico archetipo. Il vagheggiamento cioè di una Natura cosi bella, che soltanto i Greci e la loro civiltà culturale,unicum storico, abbiano potuto fermarla, farla restare.[…]
Mastroianni non avverte il bisogno dottrinario di Hölderlin di ellenizzare la terra natia per trarne motivi di metamorfosi all’indietro,totali: La Calabria non è la Germania del primo romanticismo e soprattutto essa è stata realmente Magna Grecia. D’altra parte Mastroianni non è neanche D’Annunzio, l’Immaginifico, capace di scambiare arrogantemete la Maiella per l’Himalaia. Platania invece è il dolce paese dei platani, ama credere il poeta (nonostante la versione etimologica in normale o malziosa messa in onda di Petrania, da pietre); ma certo egli non ne propone il gemellaggio con Atene. Il ritorno alla Grecia, in Mastroianni, ugualmente ma poi diversamente che in Hölderlin nell’innegabile tenuta letteraria, si richiama alla presenza degli ” amici poeti” con lo stabilirsi di un confronto sconosciuto all’hölderliano nostos verso la sorgente. Ha così vita l’interrogativo stesso sull’ambiguità dell’espressione ” la mia terra”, che il poeta calabrese adopera identificandola con una patria per la cui collocazione si deve poter contare – è la condizione storica di una vicenda poetica particolare -unicamente sul “chiarimento” degli amici poeti greci. Gli stessi con cui ,inoltre Mastroianni s’intratteneva epistolarmente, si può dire negli ultimi tempi ogni giorno.Di essi ,il quasi hölderliano Bellarminio, F.Delfi, nella prefazione a Quaderno di un’estate – la raccolta rappresenta il primo proporsi dichiarato della fase neo-greca della poesia di Mastroianni, scritta perfettamente nella lingua – non ha nessuna esitazione:”Con questa raccolta F.Mastroianni si colloca nella scelta schiera dei poeti neo-greci, ed è uno di noi per sangue e spirito.” Dalla parte non opposta, per le premesse, ma ben diversa negli esiti, Ghiannis Karavìdas, autore dell’assai perspicace studio critico dal titolo Felice Mastroianni, un poeta greco, va molto più in là dall’attribuire al poeta calabrese questo carattere addirittura biologico di greco. Per Karavìdas, è vero, Mastroianni si sente uomo dell'”esule ellenismo”,”esule figlio” della “antica patria, la Grecia […]”.Ma è lo stesso G.Karavidas che poi annota, per l’ esule Mastroianni,infine decisamente:”il suo carattere greco è di tutta l’umanità ed insieme familiare”.
Karavìdas percepisce – ed è il suo indiscutibile merito d’interprete non soggiogato dall’adelfismo alla lunga un pò di maniera strutturatosi sulla vicenda – che in realtà “l’anima dell’uomo greco non è imprigionata in limiti nè di spazio nè di tempo”: È in siffatta condizione generale che ” l’anima del poeta ritorna alle sorgenti”; in una atipica libertà, dunque, e comunque in maniera diversa da quella del semplice ritrovamento delle radici che si assegna al Mastroianni.Karavìdas insomma coglie perfettamente nel segno correggendo l’affettuosa ma unilaterale lezione di Febo Delfi della grecità congenita e riconquistata di Mastroianni, con l’annotazione, che solleva il problema critico su un piano più moderno:”il cammino del ritorno” – quello appunto del poeta che ritorna alle sorgenti- ” è perenne”, “nessuno arrivo porrà fine ad esso come sogno”. Infine per lui, “Mastroianni rappresenta l’antichissimo popolo che sa muoversi con direzione l’infinito per non giungere a potere inseguire eternamente l’irrangiungibile. Irraggiungibile, si deve aggiungere, come non può non toccare ad ogni ritorno di poeta verso un infinito destinato a ricevere la determinazione, non diversamente appunto che poetica, del non esistente. Il poeta così non solo “ritorna” al paese, da dove non è mai partito, ma dove anche non si è mai stati: la difficoltà poetica, che sembra avere le movenze di un nuovo barocco e di un vecchio bizantinismo, mentre infine, in realtà, è il sogno di un climax nichilista, sempre più cupo, desolatamente imperante nella cultura occidentale.(…)Niente perciò da contrabattere per la sua affermazione [di Karavidas ] che Mastroianni è “un poeta greco, che appartiene naturalmente alla schiera dei poeti di Calabria con la stessa origine greca, ma anche di tutti quelli del mondo, che con l’essenza del loro cuore chiudono le crepe del tempo, affinchè non sprofondiamo nel caos”. Solo, si deve aggiungere, l’ellenismo di Mastroianni, alimentato da una eccellente cultura classica e non certo sorto agamicamente, è il prodotto di una densa di significati scelta personale.[…] Fra il Mastroianni e le cose, intanto e il mondo relazionabile s’è stabilita una sintonia, la cui realizzazione poetica ha trovato una sua forma inconfondibile fatta di una storicità di alta levatura ed insieme di pronta, classica accessibilità, fortemente, diremo semantizzata. Tramite un linguaggio ricco di significato, per l’appunto, che è quello di una concezione pessimistica epperò esemplarmente positiva della vita. In tale contesto, il linguaggio del poeta risulta quello di una reale, anche se rimossa- cioè respinta con tutti i mezzi a disposizione di un sentimento fortemente religioso- delusione. E le prime avvisaglie del rifiuto, quale senso effettivo di un ritorno, per il Mastroianni uomo di pena, di una consolazione esauriente, sono già in Parole ad Omero (in Luna Santa Luna). La consonanza del grandissimo poeta, Mastroianni la trova nel”cuore umano”di Omero, nella sua consapevolezza della “solitudine dei numi e degli eroi”. L’addita quella consonanza nella comune dolorosa avvertenza della vanità di un “sogno di ritorni/ ad approdi di giovinezza/ impossibili anche ad Odisseo”.accorata denuncia dell’illusorietà di un’assurda, essa stessa infantile, richiesta di “un’infanzia purissima”, di un ” giardino di Scheria/ bello come l’innocenza del mondo; rifiuto della nostalgia stessa, infine di un passato onirico gabellato per storia […]
BENITO PAOLA
IL CAMMINO DELLA FEDE NELLA POESIA DI FELICE MASTROIANNI
Platania, 13 maggio 1989
Signore, signori, amici,
otto anni fa, circa, in una circostanza insolita e lieta, a me toccò prendere la parola per celebrare il nostro Poeta ed in quella circostanza mi sforzai di chiarire come egli avesse percorso con noi “lo stesso cammino” e condiviso da uomo e da Poeta la nostra esperienza.
Allora, parlando di lui alla sua presenza, mi capitò di dire che egli possedeva: “…una fede inquieta ma solida, una speranza sempre insidiata ma incrollabile, un amore che, per essere schivo, non cessa, perciò, d ‘essere generoso e profondo” . l)
Qualche tempo dopo, rileggendo il mio scritto, egli, su mia richiesta, indicò alcuni punti che, a suo giudizio, sarebbe stato opportuno approfondire e precisare.
Pochi mesi dopo egli venne a mancare in maniera tanto inaspettata quanto prematura ed io non potei chiarire ed approfondire, in altri termini non potei dargli quelle risposte che egli si attendeva da me.
Così, circa cinque anni fa alla stessa data, io mi trovai a dovere riprendere la parola,questa volta per celebrarne la figura e l’opera e per illustrare quanto avevo scritto sulla lapide che lo ricorda e che si trova nella Scuola Media del nostro Paese a lui intitolata.
In quest’ultima circostanza notai che “…egli ci presenta, con una veste che non avremmo saputo immaginare, la nostra quotidiana, abituale, comune esperienza, facendocela rivivere riscattata al filtro di una sensibilità dolente ma pure fiduciosa, alla luce di una fede sicura eppure combattuta, contemplata con gli occhi di chi ha tutto visto, eppure tutto è disposto ad accettare e ad amare” .2)
Stasera mi si dà la possibilità di riprendere ed approfondire, per quello che so e nei limiti imposti dalla presente cerimonia, il mio discorso, iniziato alla presenza del Poeta e che, purtroppo, deve continuare in sua assenza o, meglio, nonostante la sua “non presenza” fisica, visto che la sua fede, che è poi anche la mia, ci conferma che “…quelli della nostra gente [sono] in attesa sull’altra riva” ed io, quindi, sono sicuro che egli, in qualche modo, è qui, accanto a noi, ed ascolta quello che andrò dicendo di lui per lui con queste mie povere parole.
Il mio non sarà, dunque, un discorso critico; non lo consentono né il tempo né il luogo, ma una proposta di lettura fra le tante possibili, alla ricerca di uno degli aspetti della ricca umanità di un poeta che, come ogni uomo, con serietà e con pudore insieme, si è confrontato con l’eterno.
E lo ha fatto innanzi tutto “dialogando” con serena e virile malinconia con i suoi morti il cui “sguardo rasserenato / ad altro ciel s’accende / vivo nel nostro sangue / e c ‘illumina i giorni dell’attesa” 3) , dice il Poeta, disponibile e disposto ad accettare senza urti né disperazioni il comune destino di morte.
Ed in altra poesia, poco dopo, egli con ferma “visione” dirà, concluso il cammino terreno, il quale, qualunque sia, è sempre un istante:“…avverrà con la morte/ ch’io mi risvegli, mio Dio,/ oltre il cerchio dell ‘ ombra al sereno/ d ‘un eterno mattino/ di Te sfavillante”. 4)
E qui ci sorprende e ci conquista l’ultima strofa della stessa poesia con il suo interrogativo che ci pone di fronte alla profondità dell’intuizione poetica e della riflessione teologica del Nostro, il quale nota: “S’arresterà il cammino/ o senza fine è l’andare/dell’anima, Signore,/ al Tuo sublime splendore?”.5)
Che è come chiedersi se l’eternità si articolerà in una continua ma statica contemplazione di Dio o la stessa eternità non ci basterà per conoscerLo ed amarLo in modo inesauribilmente nuovo e sempre più consapevole ed intenso.
Ma non sempre l’anima del poeta è così serena, così sicura, poiché egli vive la sua vita, la quale, con tutte le vite, è un misterioso intreccio di sofferenze e di angosce, di dolori e di speranze, di solitudini e di attese, di aspirazioni e di delusioni.
Come tutte le vite, anche la sua gli appare talvolta, vissuta “al limite di un ‘ombra più vasta“, “una vita/ che vede sola se stessa/ con occhi d’assurdo” e trova conforto nel ricordo di “un antico odore di pane/ in sere di lumi” e degli occhi dei propri cari defunti, ricordo che egli sente più vivo della sua stessa esistenza. In questa breve ed intensa lirica 6) noi sentiamo come talvolta questa vita assuma per il poeta dimensioni d’angoscia e d’assurdo e pesi sulle sue spalle d’uomo.
Per poco, poi, di nuovo, l’accettazione della comune sorte di noi, esseri mortali, assume i contorni di una distaccata e pacata malinconia: “Piccolo cimitero,/ tutto ascolto/odoroso di greggi sul pendio./ E’ sì breve il cammino/ dalle case al cancello./ Ci si abitua al pensiero di quell’ultima strada/ come del verde viottolo del campo./ E quell’estremo andare/ s’attende come il tempo/ certo delle castagne/ dei grappoli dorati/ delle nubi che vanno al Reventino “, dirà nella lirica intitolata “Dal cimitero di Poggioreale”.
Ma quest’attesa pacata di un destino di morte ineluttabile non è dettata da rassegnazione o da rinuncia, no! Il pensiero del Poeta ha, infatti, cercato “…fin dove più remote/ potessi scrutare ” dice nella lirica intitolata “La prora a Nadir “le arcane sorgenti della vita,/ le primigenie esplosioni della luce.” E le ha cercate, egli ci dice,”invano”, poiché “…più profonda e perduta d’ Antares [è] l’alfa del mondo“; nello stesso componimento egli immagina, inoltre, di avere preceduto e poi incontrato per le vie dell’universo il primo cosmonauta: questi “luminoso di costellazioni“, il Poeta “tramortito naufrago/ degli abissi del tempo“, poiché, “Dinanzi alla notte remota“- sottolinea il Nostro- “mi respinse il vento dell ‘Invalicabile./ E fu doma la mia ansia/ alle voci buone della terra/ al ritmo uguale dei giorni“, mentre il cosmonauta, egli immagina ancora, ha potuto vedere “Iddio benedicente [in lui] le stirpi migranti” degli uomini protesi alla conquista del cosmo.
Questa lirica ci testimonia con la vastità e la complessità delle immagini, l’urgere e l’affaticarsi del pensiero di Mastroianni, alla ricerca, comune ad ogni uomo che sia veramente tale, dell’origine e del significato di questo sconfinato universo nel quale viviamo; così come documenta la virile accettazione dei limiti conoscitivi dell’umano pensiero che torna, non sconfitto, comunque, ma persuaso “alle voci buone della terra/al ritmo uguale dei giorni” .
Non sconfitto, dicevo, il pensiero del Poeta ritorna “al ritmo uguale dei giorni“, poiché sente di poter dire ancora una sua parola e dare un suo contributo di conoscenza e d’amore al mondo degli uomini, mediante la poesia.
A condizione, però, egli sa bene, che questa parola nasca, come egli sente che nascono le sue, dal profondo dell’anima, perché soltanto così essa sarà per gli uomini fratelli “come il vento/ dopo mezzodì/ in un mondo ancora possibile/ sul cammino lucente/ di Dio“. 7)
Questi versi documentano, non soltanto la dimensione religiosa, nel senso più ampio e completo del termine, della poesia di Mastroianni, ma anche la sua altrettanto profonda e generosa dimensione umana in perfetta armonia l’una con l’altra. Per capirlo bisogna rifarsi, naturalmente, ai versetti del Genesi citati dallo stesso Poeta all’inizio del canto. Solo allora ci si renderà conto, infatti, del ruolo consolante e sublime che il Nostro affida alla vera poesia, a quella cioè, che nasce dall’ anima ed in essa trova tutta la sua autenticità e la sua legittimazione.
Ispirata allo stesso ideale di vita operosa, che gli fu proprio e che non disdegna il pianto e il dolore, ma ad essi attribuisce un valore di redenzione e di purificazione, e l’accorata e pur dolce “Preghiera ” che chiude, si può dire, la raccolta “II vento dopo mezzodì”; Preghiera composta e dignitosa, non ignara dei tormenti, dei dubbi, delle sofferenze del vivere quotidiano, serenamente accettati e fiduciosamente affidati al sapiente e misericordioso amore di Dio che può e vuole illuminare qualsiasi nostra “tenebra ” terrena.
Altre volte al Poeta appare, invece, remota la luce dello sguardo di Dio nella lunga catena di giorni, di cui è formata la vita, nell’attesa, non sempre fiduciosa, di “giorni senza ombre.” 8)
Anche per chi, come il Poeta, ha ricevuto il dono della fede, dunque, per chi, come lui, ha visto” l’acqua/ farsi vino nelle idrie del convito“(9), è possibile talvolta vedere allontanarsi la luce dello guardo del Signore o sentire che la “lampada magica“10) della fede, talvolta, si spegne“…in un cumulo di cenere” o avvertire che “la speranza non è che un’ombra“10; ma, dopo avere sentito la montagna e la notte della vita franargli addosso, ll) egli può con l’aiuto del ricordo dolce degli occhi della madre chiedere: “Per questa mia tarda innocenza/ dimentica, o Signore“12) i dubbi, i tormenti, gli smarrimenti, le debolezze e le angosce, che costituiscono il fardello della sua, come di ogni vita.
Consumati dal ritmo incessante di questa vita, lontani dall’innocenza delle origini, il Poeta avverte, in “Dedica “, che per gli uomini “Sarebbe tempo di silenzi/ fondi come la passione di Cristo” , per poter in questi recuperare tra “confidenti discreti/ parole senza grido/ grani di rosario/ d’un povero amore” e, così riscoprire la “geografia” di quella “foce” imparata a conoscere da fanciulli, per domandarsi se, dopo tanto cammino, la morte potrà ritrovare in noi gli occhi innocenti della nostra infanzia.13)
Così questa fede, nata nel cuore innocente di un fanciullo, alimentata da una lunga “corrispondenza d’amorosi sensi” 14)con i propri morti, consolidatasi al fuoco e nel confronto con l’esistere quotidiano e con le sue prove, può presentarsi come “…memoria di un ‘acqua/ che ci asseta“, quell’acqua di cui Gesù parlava alla Samaritana e che sarà, come dice il Poeta, “la Tua risposta/ dopo tanto silenzio, o Signore“15) .
Così è il nostro destino di pellegrini verso una terra promessa ma ignota: ora sentiamo nel cuore la fiducia, la forza di credere e di attendere, ora ci viene di gridare: ma “attesa di che,Signore/ se non m’assicuri/ nell ‘ignoto cammino?”16). Altre volte ci sorprendiamo a domandarci, come fa il Poeta: “…Cuore che ti spegni,/ io non so quali mani ignote/ t ‘hanno rinnovato negli anni/ l’olio da ardere”. Forse le stesse mani “che nutrivano la lucerna./ Mi seguiva il suo raggio/ al varco misterioso”.17)
A sostegno e conforto del suo continuo cercare e cercarsi, il nostro Poeta si confronta con l’umile coetaneo della sua terra, sente da lui: “… Abbiamo da fare la volontà di Dio…” e nota che “…questa indulgenza/ [lo] fa creatura di un vangelo primordiale dell’anima/ e della terra“, che egli ha “nelle parole/ l’eco di un Angelus…“, così che “un confronto con lui [gli] è gioia e misura/ d ‘umiltà“.18) E nel silenzio della sua gente, degli umili, il poeta dice, “…affondo/ come in una serenità ignota, per sentire la vanità dei miei mali,/ accanto a te che hai ancora/ non so che fede da custodire/ io, che mi sento vile/ solo al pensiero di un vento perverso…“19) . Così, senza schermi di fronte alla sua anima, egli ci confida fraternamente questo suo timore, solo al pensiero della morte che, come “un vento perverso” ed inesorabile verrà a cancellare ogni nostro palpito, ogni nostro dolore.
E, continuando il dialogo con Rocco, egli nota come questi abbia “il senso dell’eterno/ dell’ago della bussola…“, per cui il poeta alla sua ombra crede di poter “mettere a riparo la [sua]vita“20), poiché egli dice, “da te ho imparato/ a sentirmi fraterno/con le cose/ nella sorte comune/delle povere speranze“21).
Ammaestrato dal proprio e dall’altrui dolore, il nostro Poeta può chiedere alla notte d’essere nient’altro che un semplice/ palpito sensibile e vivo,/ del dolore del mondo” e, purificato e redento da questa profonda condivisione del destino di tutti, può dire:”…E non ho sentito mai Iddio/ più vicino alla mia anima/come stanotte,/ sotto l ‘infinito mistero degli astri/ e nel sentimento della nostra solitudine“22) .
Così la sua fede, non quieta, no, nè confessionale, nè bigotta, ma virile e sofferta, ma profonda e forte cresce nel tumulto di stati d’animo contrastanti, tra le tempeste della vita che tante volte sconvolgono ed opprimono l’anima; cresce sopravvivendo ed irrobustendosi nelle asperità del cammino, di fronte agli ostacoli sempre risorgenti dentro e fuori di noi, nella corsa affannosa dell’esistere quotidiano alla ricerca dell’ “acqua che ci asseta”.
Man mano, gli anni in cui le “musiche celesti” risuonavano nell’anima e ci si poteva guardare “dentro al cuore /come in un ‘acqua limpida e pura“, si allontanano e il Poeta, ora chiude gli occhi “per non vedere il deserto“23), ora cercherà il lontano sorriso della madre “negli occhi dolci/…di una Madonnina campestre“24) e potrà affermare con serena convinzione: “… leggete dentro il mio cuore/ troverete due nomi:/ Dio e Poesia“25). O inseguire il suo “più umile sogno ” : “un paese dove ad ogni nuovo mattino/Dio torni sulle strade/ e la parola amore/ abbia lo schietto sapore del pane quotidiano“26), intuire e cantare che “la semplicità era la preghiera/ dei vecchi che pensavano/ alla dura fatica dei campi/ e benedicevano Dio” e parevano muti asceti in segreta comunione con Lui 27). Può, per averlo sperimentato, avvertirci che “Dio è nel quotidiano./ Ma la sua voce s’ode meglio nel silenzio“28) .
Ma ciò non significa che il traguardo sia stato raggiunto una volta per tutte, poiché Dio, a volte, ci si nasconde per farsi sempre cercare, meglio conoscere e più amare: il Poeta sente, perciò,talvolta, che “… tutte le cose sprofondano/ Non c’è che la notte./Tutte le cose sono un inarrestabile fiume“29), intorno a lui e in lui insonnia e solitudine e allora egli grida angosciato e smarrito: “Dove vi ritroverò, morti miei?/ Non c’è più nulla./ Dove sono caduti i nostri volti?“30). Allora sente “L’Angelo nero” incombere sull’anima come “immensa, incrollabile rupe/… estrema frontiera/ di là dalla quale ci attende l’ignoto“: una visione cupa, sconfortata, dopo la quale, però, l'”Ora dell’Ave” passa con l’Angelo, come una musica purissima, senza, tuttavia, cancellare l’angoscia del “Domani” avvolto “Dentro la notte/ con il suo volto ignoto e il seme oscuro del nostro nulla” .
Ma risorgendo mille volte e mille dalle ceneri delle speranze e delle illusioni, egli avrà la forza di dire ancora: ” Adiamo, anima mia verso il sole“31); potrà farsi carico dell’ingratitudine del mondo e dire al Cristo: “Ti abbiamo crocifisso/ e ti crocifiggiamo sempre, o Signore“32) o gridare al mondo la sua certezza: “Cadrà,cadrà finalmente/ con la morte,/ questo muro dell’egoismo/ della superbia e dell’odio/ che ci divide/ e ci fa estranei/ a noi stessi“33) ;potrà elevare la sua ultima preghiera, dicendo: “Dacci, Signore, la resurrezione del canto,/ e sia come la rugiada/ sulle erbe,/ e sia benedizione il canto dell’anima/ sul mondo del pianto e delle sventure“34); potrà, infine, farci la sua ultima esortazione:
“Benediciamo, benediciamo ancora/ la vita“35) .
Ecco, dunque, il cammino della fede nella poesia di Mastroianni, ecco come questa s’intreccia in maniera indissolubile alla sua vita, ecco ancora come di questa condivide le luci e le ombre, le certezze e i dubbi, le gioie e i dolori.
Questo è credere! Perche è un cercare ad occhi aperti e fermi il senso della vita, il significato dell’amore e del dolore del mondo, è un affidarsi a Dio solo dopo averlo cercato ed amato come un figlio che ha sue esigenze ed una sua dignità, come un figlio che, senza perdere mai il desiderio del Padre, talvolta ha visto svanire nella lontananza il suo volto e s’è messo a cercarlo con più lena e con maggiore desiderio; come il naufrago, in un mondo disumano e privo di luce, che anela alla riva e, talvolta, la vede svanire all’orizzonte, ma non per questo dispera, non per questo si lascia andare nei gorghi, anzi, nonostante la stanchezza, raddoppia gli sforzi, raccogliendo le forze residue, e continua a cercare “oltre il cerchio dell’ombra“36), sicuro che l’aurora senza tramonto sorgerà anche per lui.
Questo cammino di fede, fatte le dovute proporzioni, a me sembra paragonabile alle stazioni di una Via Crucis, lunga o breve quanto una vita, con le sue cadute e le sue ferite, con le sue lagrime e le sue battiture, con le sue solitudini e le sue angosce, con il suo Golgota là che attende anche il nostro grido: “Eloì, Eloì, lamà sabactani?”37) , seguito dal nostro fiducioso e filiale: “Padre, nelle tue mani affido il mio Spirito“.38)
Cosi Felice Mastroianni, e mi consenta il Professore di chiamarlo per nome una volta, se sulla via della Croce siamo davvero fratelli, cosi, dicevo, egli ha completato nella sua vita quello che “mancava” alla Passione di Cristo 39) ed oggi ci precede in quella resurrezione che è premio generoso al nostro soffrire e risposta luminosa alla nostra sete d’eternità.
1- Benito Paola: Lo stesso cammino -27/9/1981, inedito 2 -Benito Paola: Parole per un’epigrafe -22/9/1984, inedito 3-Felice Mastroianni: “Quest’ombra sul terreno” -Ligeia -Lamezia Terme 1983 , pag.48 L’Attesa- in L’Arcata sul sereno 4- Felice Mastroianni: op. cito pag. 58, Eterno l’andare? in L’Arcata cit. 5 -Felice Mastroianni: op. cit. pag. 58, Eterno l’andare? in L’Arcata cit.6- Felice Mastroianni: op. cit. pag. 75, Sola, in Favoloso è il vento 7 -Felice Mastroianni: op. cit. pag. 150-151, Il vento dopo mezzodì,nell’omonima raccolta 8 -Felice Mastroianni: op. cit. pag. 171, E’ remota la luce, in Il riso delle najadi 9 -Felice Mastroianni: op. cit. pag. 175, La lampada magica, in il riso cit.10 -Felice Mastroianni: op. cit. pag. 180, Uomo, in il riso cit.11- Felice Mastroianni: op. cit. pag. 181, L’uomo che sentì la montagna,cit.12- Felice Mastroianni: op. cit. pag. 181, L’uomo che sentì la montagna, in Il riso cit.13 -Felice Mastroianni: op. cit. pag. 197, Geografia di una foce, in Luna, santa luna
14 -Ugo Foscolo “Dei Sepolcri” verso 30. 15 -Felice Mastroianni: op. cit. pag. 209, L’ultimo mito, in Luna, santa luna cit.16- Felice Mastroianni: op. cit. pag. 217, Momenti, in Luna, santa luna cit.17 -Felice Mastroianni: op. cit. pag. 223, Presagio della notte, in Luna, santa luna, cit.18 -Felice Mastroianni: op. cit. pag. 243-244, Salmo n° 1, in Parole a un contadino 19 -Felice Mastroianni: op. cit. pag. 247, La tristezza del trifoglio, in Parole cit.20 -Felice Mastroianni: op. cit. pag. 248, Salmo n° 2, in Parole cit.21 -Felice Mastroianni: op. cit. pag. 250, Il seme della speranza, in Parole cit.22- Poesie neoelleniche ed. Quaderni Delfici -Atene 1983, pag.58 -Preghiera in Quaderno di un’estate 23 -op.cit., pag.86, Per non vedere, in Quaderno cit.24 -op.cit., pag.88, Appenderò, in Quaderno cit.25 -op.cit., pag.128, Disarmato, in Primavera 26 -op.cit., pag.134, Un paese, in Primavera 27 -op.cit., pag. 170, Il senso dell’eterno, in Primavera cit.28 -op.cit., pag. 188, La voce, in Primavera cit.29 -op.cit., pag. 206, Notte e vento, in Primavera cit.30 -op.cit., pag. 206, Notte e vento, in Primavera cit.31 -op.cit., pag. 226, Verso il sole, in Primavera cit.32 -op.cit., pag.240, Io sono la Verità in La favola di Eutichio 33 -op.cit., pag.246, Muro in La favola cit.34 -op.cit., pag. 248, Resurrezione del canto in La favola cit.35 -op.cit., pag. 270, Incontro in La favola cit.36 -Quest’ombra sul terreno cit.- vedi nota n° 4- 37 -Vangelo di Marco XV, 34 38-Vangelo di Luca XXIII, 46 -39 -S.Paolo,Col., 1, 24
Giuseppe Selvaggi Per Felice Mastroianni( in Atti del Convegno di Studi-Lamezia Terme,20 aprile 1985.)
Taglio in pochi minuti questa conversazione che pure riguarda una conoscenza -nel senso più esatto della parola così usuale: avere insieme scienza -di quasi mezzo secolo di esistenza. Lui, Felice Mastroianni, esile eppure stranamente ben piantato professore, silenzioso ed improvvisamente capace di assalti nel discorrere. Si era a Cassano Jonio. Chi vi parla aveva persino diffidenza di questo professore così distinto da incuterti rispetto. Io ero allora sul finire del Liceo, nella confinante Castrovillari, con nessun rapporto scolastico con il prof. Mastroianni. Semmai, poteva esserci polemica.Anzi eravamo su linee distanziate, ed era una conquista l’incontro, l’impatto, il sentirsi alla fine ansiosi di stesse idee portanti da vivere, se possibile, sino all’autodistruzione. Una parola che ci era cara, allora, mentre era arrivata la guerra. Quindi, cari amici del Convegno sulla poesia di Felice Mastroianni, vorrei portare alla raccolta di quanto diciamo in questo convegno una testimonianza distaccata sull’energia interiore e sui sogni della mente di Felice Mastroianni. Lo faccio evitando gli affetti, con la ragione fissata su quell’anno, 1941, quando si svolse l’avventura mentale,tutto nella mente, che vorrei venisse aggiunta alla biografia del poeta. Felice Mastroianni il 28 marzo 1967, da Napoli, mi scrisse: ‘A te, che ho sempre tenuto in questi lunghi anni nel cuore”. Erano passati più di 25 anni dalla nostra costruttiva polemica. Gli rispondo come se fosse vivo, perchè è vivo nelle sue pagine, ancora con polemica ed evitando ogni commozione, dopo altri quasi vent’anni. Le idee hanno tempi lunghi.
Ma, di che si tratta?
Vorrei (è brutto dire vorrei, ma sta a indicare il desiderio di vedere stabili le basi di resistenza, nel tempo, della presenza culturale di Mastroianni) che venisse qui indicata, per una futura documentazione, la radice dello scatto ideologico da cui si sviluppò la cosiddetta mediterraneità di Mastroianni, per evitare ch’essa diventi una etichetta generica ai danni del poeta. Dunque, quel 1941. E quel 1940, mentre arriva la guerra. Chi era, dove era, cosa discuteva Felice Mastroianni?
Lui viveva tra scuola privata, scuola pubblica in una comunità di difficoltà ambientali, tra casa e studio, anche per i futuri concorsi. Tra Monte Pollino e Sibari eravamo, tra giovanissimi e solo un po’ meno giovanissimi come lui, un gruppetto che pensava e cercava di capire oltre la cerchia nativa.Avevo dei canali allora difficili per la comunicazione culturale, ma tali da farci pensare con pensiero europeo. Adesso “europeo” è termine banalizzato. Possiamo ben provare la gioiosa drammaticità di quel nostro circolo di idee. Modello era diventato Otto Braun, col suo unico diario, inviatoci da Benedetto Croce, rimasto a testimoniare la possibilità di andare oltre la terra nativa pur restandovi ancorato. Otto Braun era morto meno che ventenne nella prima guerra mondiale. Analizzavamo i fascicoli della “critica”. Procurai la prima lettura di John Keats nell’edizione di Vallecchi. Ricomponevamo in versi tradizionali le strutture frammentate e quindi nuove di Ungaretti. Era presente (hai visto giusto, Pasquale Tuscano) Francesco Acri, nelle prime edizioni che ancora conservo. Scrivevamo lettere ad Antonino Anile. La polizia aveva individuato, tenendola d’occhio, la casa dei Toscano, dove attingevo libri. Avevamo avuto abbagli (ma li avevano avuto persino i genitori di Anna Frank, li aveva avuto persino Singher, giovane tardivo a lasciare l’Europa prima dell’eccidio), abbagli sino a pensare (tra ’39 e 40) che persino un Hitler potesse essere il catalizzatore di idee oltre il nazionalismo, in libera unità mondiale. Per ricrederci, subito. In questo vivere di scontri e di incontri,in questo attendere l’ Avvento, (lo hai captato, stamane, Vittorio Vettori), Felice Mastroianni risultava, anche per i suoi pochi anni più avanti di noi (eravamo sì e no 5 -6 amici tra Cassano e Castrovillari), un freno di saggezza. Ma un freno.
Tento di stabilire, ai fini di una futura analisi sulle radici del futuro Mastroianni, momenti e dissensi dei dibattiti quotidiani, accaniti come fossimo giocatori di carte che dimenticavano persino la cena per finire il giro di partite. Lui, Mastroianni, aveva prudenza. Il terrore di buttarsi nel vuoto di quella attesa del Dopoguerra attraverso la Guerra lo rendeva persino ostile a sviluppi mentali vorticosi che magari erano partiti anche da una sua osservazione. Un punto di partenza del nostro dibattito era questo: l’occasionalità della terra nativa, per l’uomo. Per cui: niente razzismo, niente preclusione in nome di antenati, niente civiltà passate agenti nel nostro sangue e nella nostra psiche. Da questo meditare, che diventava automaticamente protesta, atto contro la stessa guerra, nascevano contatti, iniziative, sogni di segrete azioni pur di arrivare ad essere, noi stessi, uomini del mondo.Ma ci sopraffaceva il congegno interiore della nostra amata terrestrità locale. L ‘amore, per dirla con tono romantico, per il pezzo nativo di mare e di cielo.
La patria, piccola e grande. In questa contraddizione costante (ed è subito dopo che ti incontrai, Vittorio Vettori, e solo per caso allora non hai anche conosciuto Mastroianni) emerse di fatto I’impossibilità- a trovare termini comuni associativi. Ma anche in Felice Mastroianni era scattata la scoperta dell’oltre -nazionale, dell’oltre -locale, di una patria terrestre che fosse universale come e nella stessa misura della patria celeste: ognuno col suo cielo, col suo Dio. Ma tutti in uno e uno in tutti.
Per inciso e per spiegarmi non credo che ci sia grande matrice d’arte senza grande e confluente grande matrice ideologica. Noi in quel 1941 -con Felice Mastroianni quasi tutore, per quei suoi pochi anni di più -cercavamo la radice su cui crescere.
Vengo al dibattito, al suo tema. La tentazione di battere a macchina per tutto il giorno mi prende rievocando il poeta e l’amico. La scelta di Mastroianni, persino della scrittura in greco d’oggi, a ricordo dei nostri amatissimi Lirici, della nostra adorata Odissea, la sua affermazione posteriore di sentirsi figlio persino nella carne della Grecia -quante liti su questo…-possono produrre un danno di impostazione nel cercare la consistenza della natura poetica di Felice Mastroianni. Possiamo cioè avviarci a conclusioni estetizzanti, all ‘usuale asse Calabria -Magna Grecia, aggravato dall’aggancio alla grecità contemporanea. No. Avverto (e le nostre rarissime occasioni postbelliche di incontri me lo confermano, insieme ai silenzi) che Felice Mastroianni aveva elaborato in sè il dolore della guerra, portandolo anch’egli, come tanta gioventù, alla gioia di un esistere fuori da spezzati orizzonti terrestri, pur restando legati, stregati anzi, alla nostra piccola patria. Bisogna quindi evitare che la scelta di Mastroianni alla fine potesse risultare grecula, mentre è universo.La sua Grecia è solo struttura mentale,scala e pretesto per arrivare al suo universo.
Gli scrissi, in un momento di riavvicinamento del dialogo, una cartolina illustrata (era la tomba di Keats), con scritto solo: “Stupende le tue scelte”. Non c’era la teleselezione e mi cercò due volte per telefono, per dire: “Ripetimi a voce le parole: Stupende le tue scelte”. lo le ripetei, aggiungendo una nostra vecchia frase: tutta l’acqua scende da uno stesso cielo, così le scelte.
A Felice Mastroianni io portavo (a lui, all’anziano pittore Andrea Alfano, al suo collega di docenza Michele Amato) ogni settimana, perchè le scrivevo ogni domenica, le poesie del mio Fior di notte, 1941 anch’esso. Caro Alberto Frattini, tu mi commuovi quando ti ricordi a memoria il verso sulle lucciole. Felice Mastroianni mi ripeteva intere le poesie, disossandone poi insieme le purtroppo fragilissime strutture. Dovrò cercare una sua poesia di risposta. Ma tanto era la coscienza dell’arte che sapeva trasmettere il prof. Mastroianni, e qui prof. ha un valore, che io smisi di scrivere versi per almeno sette -otto anni. Perchè? mi chiese lui. E anche lui minimizzava i suoi versi, sino ad una tormentata autoflagellazione.
Splendore di quel 1941, nonostante il sangue della guerra. Fu forse nei primi del ’42 (potrò stabilirlo) che proposi a Felice Mastroianni un esperimento sul vivo circa le radici.Nella Piana c’era un posto tedesco antiareo. Un tenente era della nostra pasta. Allora c’era un campo-lager, nella vicina Mongrassano con ebrei entro il filo spinato. Riuscii, complice un militare italiano, a stabilire un incontro per leggere poesie e parlare dell’Avvento postbellico. Così, ci trovammo insieme. Paura e gioia erano miste in quelle due ore in una casa di campagna. C’eravamo tutte le componenti del dramma della guerra, senza frontiere. Mangiammo fave e pancetta. E vino. Sapete che cosa ricordo di più di quell’incontro? Persino la paura l’ho scordata. Ricordo gli occhi di luce, sottilmente molto lontani, universali occhi,di Felice Mastroianni. E le sue parole, di approvazione: “Questa tua pazzia sia benedetta. È un giorno di gioia”. Recitammo dei versi nostri, dicemmo dell’Europa di domani, sparsa nel mondo e mondo essa stessa.
Alla Grecità, nel poeta allargata a Mediterraneità, di Felice Mastroianni vorrei venisse dato questo sigillo di mente rivolta al futuro, umano, in questa Terra che è già nel pensiero unità assoluta. E lo affermo impazzendo d’amore, fisico sino a volerla possedere col corpo, per questi miei e suoi luoghi nativi.